Ausilio: "Lautaro l'acquisto più bello, che feeling con Marotta. Lukaku? Il rispetto non dovrebbe mai mancare"
Parola a Piero Ausilio: nel corso della mattinata il direttore sportivo dell'Inter è intervenuto in diretta ai microfoni di 'Radio Serie A'. Vi proponiamo di seguito tutte le sue dichiarazioni.
Quanto è bello passeggiare per Milano in questo periodo?
"I pensieri vanno a tante cose: alla partita che è stata, a quella che arriverà. Viviamo a ritmi che non ci permettono di rilassarci. Ma viviamo un bel periodo, siamo contenti".
Che percorso è stato per arrivare fino a qui?
"Un percorso lungo, di fatica e sacrifici. Ma anche bello, fatto con persone e allenatori importanti, e una proprietà che è stata in grado di essere vincente dopo aver raccolto l'eredità della famiglia Moratti".
Che interista è?
"Sono una persona che cerca di vivere nel presente. Provo a dare una mano a questa società: ho fatto il mio percorso, e attraverso degli step mi sono formato e sono diventato più forte. Oggi mi sento solido, forte e competente per dare il mio contributo all'Inter".
Nasce interista?
"No, nasco con il piacere per il calcio. Sono cresciuto nella Pro Sesto e ci ho anche lavorato, avendo finito la mia carriera prestissimo".
Che poster aveva in camera?
"Non avevo un poster perché non avevo una camera. E ne sono orgoglioso: sono consapevole dei sacrifici che ha fatto la mia famiglia, non mi è mai mancato nulla e mi hanno trasmesso moltissimo a livello di valori. La mia è stata un'infanzia normalissima: genitori operai, ho finito velocemente gli studi nel '98 e ho iniziato a lavorare subito dopo nell'Inter. Ho iniziato a giocare a calcio a 7 anni nella Pro Sesto, poi sono stato fortunato e capace e a 16 anni sono arrivato in prima squadra. Successivamente, però, sono arrivati gli infortuni. Che però mi hanno permesso di iniziare a fare il dirigente molto presto".
Quali sono i sacrifici che ha dovuto fare?
"Parto da un presupposto: faccio il lavoro che ho sempre sognato. Ho fatto la gavetta, rifiutando anche diverse scorciatoie. Ho perso molti fine settimana, alzandomi presto per girare i campi di tutta Italia. Ma non sono mai stati dei sacrifici: è la mia vita, la mia passione".
Che tipo di calciatore sarebbe stato?
"Avrei fatto il professionista: già a sedici anni ero in prima squadra, il livello era quello di una società di Serie C1. Non so se avrei raggiunto altissimi livelli, però: qualcosa per arrivare in A mi mancava. Sono stato bravo a resettare: dopo due anni di calvario, riuscire a intravedere subito un altro percorso non era facile".
Come ha vissuto il periodo degli infortuni?
"Dopo i primi infortuni fai di tutto per rientrare: ti ammazzi di lavoro e fisioterapia. Poi però capisci: quando in campo arrivi dopo, quando l'avversario ti mangia in testa, è il caso di farsi da parte. Fare il calciatore a livello amatoriale non mi interessava, ho voltato pagina decidendo di iniziare un nuovo percorso lavorativo".
È stata dura smettere?
"Durissima. Ho pensato di fare anche l'allenatore, ma poi un presidente illuminato, Teduzzi, mi disse che da allenatore ci sarebbe sempre stato qualcuno più bravo di me, e che invece c'era carenza nel ruolo di manager".
Ha mai pianto per il calcio?
"Sì, tante volte. Ma sono esperienze che ti rendono più forte nella vita".
La prima volta che ha pianto per l'Inter?
"Per qualche finale persa: non ho pianto, ma un po' di amarezza resta. Anche se dal giorno successivo c'è subito la voglia di ripartire".
Si ricorda il primo incontro con l'Inter?
"Trattai col responsabile del settore giovanile di allora: volevano che lavorassi a tempo pieno, ma stavo ancora studiando. Vinsi io: cominciai con un contratto di sei mesi, part-time. Anche se molte volte lavoravo parecchie ore in più. Era l'Inter di Ronaldo: la prima partita che vidi allo stadio da tesserato nerazzurro fu quella al Parco dei Principi nella finale di Coppa UEFA. Un giorno, poi, Moratti mi fece chiamare da un suo assistente chiedendomi di seguire la prima squadra: ero a San Paolo, dovetti andare a Kiev, dove si consumò una delle partite più importanti per il Triplete del 2010".
Non è facile fare il suo lavoro.
"È vero, anche se cerco sempre di fare il mio lavoro al meglio, in maniera onesta. Aver potuto lavorare con tre proprietà diverse mi ha arricchito a livello professionale: mi hanno messo alla prova, e se sono rimasto è perché ho potuto dimostrare qualcosa anche a loro. Saper lavorare e dimostrarsi all'altezza è la premessa fondamentale. Da solo, poi, non fai nulla: il lavoro dei collaboratori è fondamentale, ho la fortuna di averne tanti bravi".
Chi le ha cambiato la vita all'Inter?
"Devo moltissimo a Moratti: ho fatto con lui quindici anni, non posso che ringraziarlo. Il vero cambiamento è avvenuto con Thohir, fu lui a darmi l'incarico di direttore sportivo. Poi ci sono stati momenti non facili, è stato importante avere la fiducia di Steven Zhang: lui non è entrato subito all'Inter, dopo un periodo di assestamento di Suning me l'ha fatta sentire in maniera netta. Li ringrazio tutti e tre".
Il momento più bello?
"Tante cose mi legano al settore giovanile: i trofei, vedere i ragazzi arrivare in prima squadra... Ci sono tanti Scudetti all'Inter in questi anni: ho dato il mio contributo, anche con Branca l'ho fatto. L'ultimo, ovviamente, è quello che sento più mio".
L'acquisto che la rende più orgoglioso?
"Si rischia di fare un torto... Quella di Lautaro è una storia particolare: era di fatto dell'Atlético Madrid, furono quattro giorni di trattative pazzeschi. C'era una clausola che fortunatamente Lautaro non voleva esercitare, e lì si giocò su tante cose: Zanetti mi diede una mano con i procuratori, Milito era il direttore sportivo del Racing e ci aiutò. Poco prima di chiudere Lautaro fece una tripletta con l'Huracan, ci costò qualcosa in più ma lo portammo a casa. Cito poi Balotelli: non se l'è giocata al massimo, purtroppo, nella sua carriera".
E quello più complicato?
"Ce ne sono tanti: non è stato semplice strappare Pavard al Bayern Monaco, ma perché non c'era la volontà del suo club di privarsene".
Quello mancato più clamoroso?
"Il miglior talent scout di questi anni in Italia è stato Pierluigi Casiraghi: i giocatori bravi li vedeva prima degli altri. Si accorse di Fabregas quando aveva 16 anni, si fece di tutto per prenderlo ma non ci fu la possibilità, perché andò all'Arsenal dal Barcellona".
Lukaku è stato una delusione?
"Preferisco non parlare di un giocatore che è di un'altra società, non l'ho mai fatto in questi mesi. Dico solo che mi piace pensare al presente e al futuro, e Lukaku fa parte del passato: con lui abbiamo vinto uno Scudetto, ci ha portato una plusvalenza importante, e abbiamo perso due finali".
Cos'è successo davvero con lui?
"Preferirei non parlarne. Dico solo che devono esserci educazione e rispetto: le cose stavano andando avanti, è evidente, ma a un certo punto sono venute a mancare. Ci sono operazioni che non vanno in porto, ma se c'è rispetto non è mai un problema. Quando invece ci si nasconde o si mandano risposte tramite altre persone si pensa a voltar pagina. Per me è un capitolo chiuso dall'8 luglio: non c'è alcun rammarico".
La famosa telefonata in cui si arrabbiò è reale o una leggenda?
"No... Fu una telefonata decisa, ma nulla particolare. Dissi a Romelu quello che pensavo, dopo un po' di tempo che non riuscivo a sentirlo".
È stata un'estate interessante, considerando anche il caso Samardzic.
"Sono esperienze, dalle quali si impara sempre qualcosa".
In quanti l'hanno cercata in questi anni?
"È successo. In realtà non ho mai avuto la voglia di andar via: ci sono stati contatti, ma non siamo mai arrivati al punto di iniziare una negoziazione, o di parlare di un progetto. Non ho mai avuto il pensiero di lasciare un club così: è troppo difficile. L'Inter è una seconda famiglia per me: arriverà il momento in cui un presidente mi dirà che è giusto cambiare, ma potrò solo dire grazie".
Esiste una scadenza nella sua testa?
"Mi piace guardare in là, ma non troppo. Qui sto benissimo e lavoro bene con Marotta, c'è anche Baccin e abbiamo avviato un progetto con Tarantino. Stiamo bene: ho un gruppo di scout del quale si parla poco...".
Che coppia è Ausilio-Marotta?
"Una bella coppia, che funziona in modo perfetto. Marotta ha una grande qualità: delega e dà fiducia alle persone, e io a mia volta trasmetto questa cosa ai collaboratori. Marotta è intervenuto con un no per un calciatore forse un paio di volte, magari perché conosceva aspetti caratteriali che io non conoscevo. È una grande fortuna, consente a un direttore sportivo di occuparsi del suo lavoro: io ho bisogno di un amministratore delegato, che si occupi dei rapporti, delle istituzioni, mi consente di restare concentrato sulle cose che mi appartengono di più".
A proposito di coppie, Lautaro-Thuram?
"Una bella coppia, anche se mi piace parlare di quartetto: Sanchez ha iniziato a far vedere quello che può dare, presto lo farà anche Arnautovic".
Quando ha iniziato a pensare all'acquisto di Thuram?
"La prima volta che ne parlai in società fu dopo la cessione di Lukaku al Chelsea: giocava esterno al 'Gladbach, non sapeva nemmeno lui di essere un centravanti. Prendemmo Dzeko, ma ci mancava un altro elemento: lui era il prescelto, la negoziazione stava procedendo spedita grazie anche a Mino Raiola, ma purtroppo si infortunò al ginocchio. Dovemmo cambiare obiettivo. Ma quegli incontri rimasero la base per farlo arrivare quest'estate: il padre Lilian non aveva dimenticato che fossi stato il primo a dirgli che suo figlio potesse fare l'attaccante centrale".
Sostituire Onana con Sommer è stato un azzardo?
"Avevamo bisogno di certezze, se n'era andato anche Handanovic. Approfitto per dire che Samir resterà a lavorare con noi, c'è un progetto di due anni che lo coinvolgerà. Si poteva puntare su portieri più giovani, ma Sommer era quello di cui avevamo veramente bisogno e lo sta dimostrando. Quando è arrivato aveva già imparato le parole importanti in italiano per un portiere, un professionista pazzesco".
Meglio la coppia Marotta-Ausilio o quella Lautaro-Thuram?
"Per ora Marotta-Ausilio per questioni di anzianità (sorride, ndr). Ma spero possano crescere entrambe".
Perché ci si affida sempre più ai parametri zero?
"Noi possiamo fare investimenti con grande attenzione, non si possono fare follie. Ci sono club che hanno molte più possibilità. Noi però siamo bravi: riusciamo a trovare situazioni più economiche, o ad arrivare prima sul giovane".
Gli agenti stanno esagerando?
"È un discorso soggettivo, non andrei a etichettare una categoria. Ci sono professionisti competenti, e altri che sono interessati soltanto al proprio portafoglio, perdendo di vista interessi più 'completi'. Lavoro con molti procuratori: di alcuni mi fido molto, di altri meno".
Non essere mediatico è una scelta?
"No, sono questo: non è che creo il personaggio che non vuole parlare. La comunicazione dell'Inter non dev'essere quella del direttore sportivo che parla tutti i giorni. È più intelligente se viene curata dall'amministratore delegato, che ha una visione a trecentosessanta gradi del club. Sto bene così: raccontarsi ogni tanto è bello, farlo troppo di frequente non è giusto".
L'account fake sui social è ancora attivo?
"Sì, anche se la mia era una battuta estrapolata impropriamente da un discorso più ampio. Non è assolutamente vero che spiassi i calciatori e le loro mogli sui social...".
Sogna ancora?
"Certo. Il prossimo non è molto distante, ma richiede ancora tanto lavoro e tanta forza. Il sogno è ovviamente sportivo, per il resto mi ritengo realizzato nella mia vita. Mi piacerebbe arrivare il più presto possibile alla seconda stella, sarebbe bellissimo realizzare questo sogno".
E il sogno Champions quanto è vicino?
"Nella finale di Istanbul è cresciuta la consapevolezza di essere molto forti e competitivi. Siamo ambiziosi: esistono realtà che hanno dimensioni più grande della nostra, ma la pelle vogliamo venderla cara. Con Suning siamo partiti dal 50esimo posto del ranking, oggi siamo tra il settimo e l'ottavo. Forse questo ci darà la possibilità di partecipare al Mondiale per Club. Ora vogliamo qualificarci a tutti i costi agli ottavi".
Cosa apprezza di Inzaghi?
"Semplicità, umiltà, genialità. E pigrizia (sorride, ndr). Ha la sua routine e delle esigenze che non puoi cambiare. È molto diverso dagli altri allenatori che abbiamo avuto. Lui è geniale: ha talento, ha un buon gusto per il calcio di qualità e fa star bene tutti. I ragazzi stanno bene insieme, ed è importante".
È stato vicino all'esonero lo scorso anno?
"Mai, sono sincero: non è nella cultura di Zhang e di Marotta. Sapevamo che fosse un momento di difficoltà, ma che con unità d'intenti, e pungolando un po' l'allenatore, ne saremmo potuti uscire. Siamo stati bravi a farlo e a riprendere un cammino pazzesco, che ci ha portati di nuovo in Champions League, a vincere la Coppa Italia e a disputare la finale di Istanbul. L'esonero non è mai stato preso in considerazione".
Che presidente è Zhang?
"Dal punto di vista tecnico, non avendo esperienza, non può magari dare un giudizio sulle qualità di un giocatore. Credo sia una grandissima cosa: permette ai dirigenti di fare il loro mestiere. Lui ha grande passione, segue tutte le partite ed è molto vicino a noi. Ci dà grande tranquillità e serenità, non si è mai arrivati all'esasperazione con lui. Cito il caso Skriniar: con altri presidenti avremmo visto atteggiamenti diversi, lui dà sempre l'idea di guardare oltre. È giovane, ha una mentalità molto imprenditoriale. Ti lascia fare il tuo e ti fa sentire tranquillo".
Quanto è cambiata Milano?
"Molto. Io ho sempre vissuto in provincia, ma posso dire che sia cambiata molto. Oggi è una metropoli: una città viva, che esercita una grande attrazione. Anche con i calciatori la carta della città ogni tanto ce la giochiamo. È una città che offre moltissimo, non dà grandi pressioni al calciatore, gli consente di uscire a cena o di passeggiare in tranquillità. Avrebbe bisogno di essere più sicura, questo sì".
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